Aiutiamoli a casa loro?

Aiutiamoli a casa loro è uno slogan a cui ormai siamo da anni abituati. Chi pronuncia questa frase si riferisce agli abitanti del cosiddetto Terzo Mondo che – in preda a malanni, problemi e mancanze di ogni tipo – cercano una via d’uscita nell’altrettanto cosiddetto Mondo Civilizzato.

Aiutare a casa loro è una scappatoia che sa tanto di buonsenso, oltreché di buonismo: come molte scappatoie, anche questa gode di un ottimo successo popolare. La domanda è retorica e, proprio per questo, assai efficace: per quale motivo far venire le persone qui (proprio qui, dove siamo già tanti… e non abbiamo lavoro neppure per noi, figuriamoci per gli altri! Non hanno altra scelta che delinquere…) quando le si potrebbe aiutare molto meglio a casa loro, dove oltretutto non devono subire il trauma della eradicazione dalla propria cultura?

Al di là della statistica ufficiale e delle sue domande serie e implacabili (qual è la portata esatta dei flussi migratori? Quante sono le persone che, una volta emigrate, entrano nei giri malavitosi? Quante, al contrario, riescono a inserirsi bene nel nuovo contesto e trovano lavoro oppure organizzano una attività che consenta loro di vivere almeno con dignità?), le considerazioni di carattere storico non lasciano dubbi.

I grandi colonialismi – ma anche i colonialismi minori, come ad esempio quello italiano – hanno mirato per loro essenza a ricavare beni dalle terre colonizzate: se questo ha portato alla costruzione di infrastrutture come strade, ospedali e scuole, la verità ultima è che i colonizzatori, oltre a sfruttare tutto ciò che era sfruttabile, nel corso dei secoli hanno sempre zittito le voci di dissenso, anche quelle interne, e hanno tentato di modificare la cultura conquistata conformandola per quanto possibile alla propria, al solo scopo di potere utilizzare al meglio le risorse di questa o quella terra colonizzata.

Volere a tutti i costi cambiare l’esistenza di un presunto selvaggio può avere aspetti filantropici, come la liberazione dalle malattie o la cessazione di pratiche antiumane, quali certe mutilazioni rituali eccessive o l’antropofagia; ma più spesso è pensata solo per avere un automa in più al proprio servizio.

Uno dei problemi invocati dai fautori dell’aiuto a domicilio è che i flussi migratori sono fittamente connessi alla malavita organizzata, spesso tollerata – se non addirittura favorita – dalle nazioni sul cui territorio avviene il flusso. Ricatti feroci e violenze inaudite fanno da cornice a un fenomeno tra i più complessi e complicati della nostra società contemporanea. Adottare una sacrosanta linea dura contro i criminali trafficanti di esseri umani, tuttavia, non sposta di un solo millimetro la questione: in un mondo giusto, ognuno deve collocarsi nel posto che ritiene più adatto a se stesso. Punto e stop.

Da un lato ci sono i flussi migratori; dall’altro, i criminali che speculano sopra i flussi migratori. Le due entità non hanno nulla in comune: non è che combattendo la seconda si chiude la partita anche con la prima. Bisogna semplicemente favorire l’autodeterminazione dell’individuo in un mondo leale e legale.

La politica internazionale sembra cambiare adattandosi a tempi e sensibilità, e i sempre più numerosi e imponenti supporti ufficiali alle popolazioni disagiate sembrano incarnare proprio questa tendenza, del resto incoraggiata anche dai diretti interessati: da più parti vengono richieste restituzioni, non aiuti. E questo la dice lunga sulla presa di coscienza – in gran parte ancora soltanto poitenziale – delle popolazioni sfruttate.

Soltanto in tale ottica, aiutare le popolazioni a casa loro ha un senso difficilmente opinabile: significa innanzi tutto restituire almeno in larga misura il maltolto (e stiamo parlando di secoli di rapine e ruberie gigantesche e ufficializzate, spesso accompagnate da veri e propri genocidi…) o beni e servizi di valore equivalente; ma significa anche fornire la cultura e i mezzi per utilizzare al meglio i beni restituiti. È arcinoto, infatti, che le persone arricchite all’improvviso senza una adeguata formazione/informazione – un esempio tra tutti: le popolazioni native d’America – non sanno usufruire della inaspettata ricchezza, che normalmente viene perduta e sprecata in poco tempo. Evento tragico, che fornisce un ulteriore pretesto a quanti vedono l’umanità divisa in razze superiori e razze inferiori.

Aiutarli a casa loro, di conseguenza, implica anche che resti a casa sua solo chi lo desidera; chi resta a casa sua, inoltre, deve avere la possibilità di utilizzare ogni risorsa che la terra gli offre, con tutto il senso critico e la sapienza che la buona cultura può fornire.

Nessuno deve essere obbligato a restare in una terra che non gli permette di sviluppare appieno le sue potenzialità; nessuno deve essere rifiutato dalla terra nella quale intende trasferirsi, purché questo trasferimento avvenga nel rispetto delle regole internazionali, a cominciare dalla piena legalità. Nessuno, infine, deve essere spostato a forza dal luogo dove è nato a un altro posto, qualunque esso sia.

È il momento più alto e più naturale dell’arduo processo che prende il nome di promozione umana; fondamentale, ovviamente, se si vuole davvero diventare umani nel senso più alto del termine.

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