Il Cammino della Benedizione implica che chi lo percorre apra il suo animo alla benedizione dell’altro, in qualsiasi circostanza e in ogni momento dell’esistenza. Il nome non lascia adito a dubbi. Da questo punto di vista la benedizione acquista la fisionomia di un itinerario spirituale verso l’apertura, il positivo, la luce, l’accettazione; ancora di più, di un sì esistenziale e onnicomprensivo.
Occorre però chiarire bene che cosa designa il termine benedizione; e anche che cosa non designa, perché spesso sono proprio gli esempi al negativo a portare una luce fondamentale nel processo di comprensione di una realtà psichica o spirituale.
Innanzi tutto: il cammino. La benedizione è qualcosa a cui si arriva per gradi; non è innata (anzi!) e non accade per caso o all’improvviso. Si conquista con fatica a piccoli passi e con tante ricadute e inversioni di marcia. Senso di fatica e pigrizia ci mettono del loro per far perdere l’orientamento. Un itinerario in salita vero e proprio.
E poi: la benedizione.
Sentendo questo nome, l’immagine che per prima si affaccia alla mente è quella di un ministro del culto che – spesso accompagnando le parole con i gesti – pronuncia una formula liturgica tesa a invocare, principalmente, l’intervento e la protezione divini. Agli occhi del mondo secolarizzato, questo tipo di benedizione si connota quasi come l’espressione di una formula magica: una superstizione positiva e tutto sommato innocua, con nessunissimo peso nella vita di tutti i giorni.
Bene, è evidente che questo tipo di benedizione – comunque la si voglia intendere e valutare – non ha niente a che fare con il nostro Cammino, che invece si riferisce a una benedizione che si può comprendere soltanto risalendo all’etimo della parola, ovvero bene-dire: dire bene, considerare l’altro, oggetto della bene-dizione, nella luce positiva di una attenta valutazione, di un genuino interesse, di un rispetto incondizionato.
Detta così sembra facile.
La vita reale, tuttavia, vira spesso verso direzioni drammaticamente lontane da tutto ciò. È esperienza comune trovare persone antipatiche, arroganti, colleriche, fastidiose in ogni senso possibile; gruppi di facinorosi, violenti, disonesti; partiti politici che propugnano idee discutibili quando non antiumane; e persino stati-canaglia che instaurano dittature, organizzano pulizie etniche, aggrediscono altre nazioni oppure sostengono e favoriscono crimini e traffici di ogni tipo.
Non è questo il luogo per redigere un atlante del Male odierno; resta il fatto che bene-dire può spesso diventare straordinariamente difficile e che un mondo diviso tra anime candide che trovano belli e buoni tutti i loro simili e malvagi che approfittano della debolezza dei primi non è uno scenario né realistico, né auspicabile.
Dunque? Esiste un confine esatto e definibile tra l’uno e l’altro emisfero? Tra le colombe e i falchi?
Di più ancora: è possibile e giusto applicare la benedizione sempre e comunque? Esiste un limite oltre il quale un atteggiamento benedicente può diventare connivenza con crimini e criminali?
La risposta è chiara nella sua indeterminatezza: no. Appartenere a uno dei due schieramenti non è una moda, uno sfizio, una questione di interesse o un partito preso acritico. L’apertura all’altro deve fare i conti – e la storia recente ce lo insegna con una chiarezza sconvolgente – con l’autodifesa, la legalità, il diritto internazionale.
Ogni caso è diverso dall’altro; tuttavia, occorre trovare una disciplina per edificare il proprio universo spirituale in modo solido e giungere così a uno stato interiore grazie al quale, di fronte a situazioni difficili o pesanti, sapremo elaborare con naturalezza la risposta giusta. Caso per caso, appunto.
Centralizzare l’altro e mettersi in rapporto con le sue qualità migliori, entrando in empatia più con le sue doti che con i suoi difetti, renderà molto meno frequenti i conflitti di ogni tipo, ma non escluderà i tentativi di costruzione di un argine nei confronti degli atteggiamenti negativi, soprattutto di quelli molto gravi.
Il passo più importante, a questo punto, è riuscire a tirarsi fuori da noi stessi e dalla nostra passionalità e riflettere su quanta parte di ragione può avere la controparte. Raramente – e questo lo sappiamo davvero tutti – la ragione sta tutta da una parte e il torto è confinato nel territorio avversario. Su larga o piccola scala, l’elemento che accomuna quasi tutti i conflitti è la presenza di ragioni contrastanti, ma non per questo meno vere, determinanti, profonde, urgenti. Spesso basta fare un piccolo passo indietro; ma soprattutto, occorre tacitare l’orgoglio. È l’orgoglio a renderci sordi alla voce dell’altro e a farci dire se non mi chiedi scusa, non si va oltre. Se non accetti tutte le mie condizioni, l’accordo non potrà avvenire.
Ciò non toglie che la condotta dell’altro possa essere pesantemente negativa o violenta: può essere molto difficile in questo caso, trovare ancora la voglia di agire e di avere un atteggiamento benedicente.
Si deve denunciare un delinquente colto in fragrante? Il silenzio è sempre la migliore risposta alla villania e all’arroganza? È giusta l’autodifesa? Quanto può essere violenta, prima di trasformarsi in offesa?
Domande forti, urgenti, concrete. La cronaca nera e quella internazionale, in tempi recentissimi, ci hanno messo di fronte a quesiti di questo tipo, che richiedono una risposta precisa.
Bene; o meglio, male: una formuletta matematica che dia indicazioni incontrovertibili in ogni caso non esiste, come già abbiamo accennato. La benedizione impone che chi la pratica non perda mai di vista la nobiltà dell’essere umano – compreso quello più abbietto, violento o spregevole nei comportamenti pratici – che gli sta dinanzi.
Dare risposte gentili o almeno calme a chi ci sta trattando male è l’inizio di questo percorso; mantenere l’atteggiamento sorridente è fondamentale e ottiene spesso un effetto destabilizzante.
Nello stesso tempo, aprirsi all’altro per benedirlo non significa snaturarsi, mettere da parte le proprie convinzioni, nascondere la propria fisionomia; o, peggio ancora, accettare tutto. Può arrivare il momento in cui ci si debba scuotere la polvere dai calzari, per citare quasi letteralmente una espressione del Vangelo cristiano. È un momento triste, ma la vita spesso conduce a scelte quasi obbligate.
Benedire non vuole dire non vedere i difetti e i problemi dell’altro; al contrario, significa vedere e capire, senza tuttavia trasformare la conoscenza in collera. Allontanarsi senza astio né rancore e senza chiudere le porte in maniera definitiva – quando davvero non ci siano altre soluzioni – in fondo è ancora un atteggiamento di benedizione.
L’ultimo possibile.
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